Se un bambino si dovesse avventurare da solo nella 
        notte buia attraverso un bosco, avrebbe paura anche se gli si 
        dimostrasse centinaia di volte che non ci sarebbe alcun pericolo. Egli 
        non ha paura di qualcosa di determinato, a cui si può dare un nome, ma 
        nel buio sperimenta l'insicurezza, la condizione di orfano, il carattere 
        sinistro dell'esistenza in sè. Solo una voce umana potrebbe consolarlo, 
        solo la mano di una persona cara potrebbe cacciare via come un brutto 
        sogno l'angoscia. Si dà un'angoscia – quella vera, annidata nelle 
        profondità delle nostre solitudini - che non può essere superata 
        mediante la ragione, ma solo con la presenza di una persona che ci ama.
        
        Quest'angoscia infatti non ha un oggetto a cui si possa dare un nome, ma 
        è solo l'espressione terribile della nostra solitudine ultima. Chi non 
        ha sentito la sensazione spaventosa di questa condizione di abbandono? 
        Chi non avvertirebbe il miracolo santo e consolatore suscitato in questi 
        frangenti da una parola di affetto? Laddove però si ha una solitudine 
        tale che non può essere più raggiunta dalla parola trasformatrice 
        dell'amore, allora noi parliamo di inferno. E noi sappiamo che non pochi 
        uomini del nostro tempo, apparentemente così ottimistico, sono 
        dell'avviso che ogni incontro rimane in superficie, che nessun uomo ha 
        accesso all'ultima e vera profondità dell'altro e che quindi nel fondo 
        ultimo di ogni esistenza giace la disperazione, anzi l'inferno. 
        Jean-Paul Sartre ha espresso questo praticamente in un suo dramma e 
        nello stesso tempo ha esposto il nucleo della sua dottrina sull'uomo. 
        Una cosa è certa: si dà una notte nel cui buio non penetra alcuna parola 
        di conforto, una porta che noi dobbiamo oltrepassare in solitudine 
        assoluta: la porta della morte. Tutta l'angoscia di questo mondo è in 
        ultima analisi l'angoscia provocata da questa solitudine. Per questo 
        motivo nel Vecchio Testamento il termine per indicare il regno dei morti 
        era identico a quello con cui si indicava l'inferno: sheol. La morte 
        infatti è solitudine assoluta. Ma quella solitudine che non può essere 
        più illuminata dall'amore, che è talmente profonda che l'amore non può 
        più accedere ad essa, è l'inferno.
        
        "Disceso all'inferno" - questa confessione del Sabato santo sta a 
        significare che Cristo ha oltrepassato la porta della solitudine, che è 
        disceso nel fondo irraggiungibile ed insuperabile della nostra 
        condizione di solitudine. Questo sta a significare però che anche nella 
        notte estrema nella quale non penetra alcuna parola, nella quale noi 
        tutti siamo come bambini cacciati via, piangenti, si dà una voce che ci 
        chiama, una mano che ci prende e ci conduce. La solitudine insuperabile 
        dell'uomo è stata superata dal momento che Egli si è trovato in essa. 
        L'inferno è stato vinto dal momento in cui l'amore è anche entrato nella 
        regione della morte e la terra di nessuno della solitudine è stata 
        abitata da lui: nella sua profondità l'uomo non vive di pane, ma 
        nell'autenticità del suo essere egli vive per il fatto che è amato e gli 
        è permesso di amare.
        
        Nessuno può misurare in ultima analisi la portata di queste parole: 
        "disceso all'inferno". Ma se qualche volta ci è dato di avvicinarci 
        all'ora della nostra solitudine ultima, ci sarà permesso di comprendere 
        qualcosa della grande chiarezza di questo mistero buio. Nella certezza 
        sperante che in quell'ora di estrema solitudine non saremo soli, 
        possiamo già adesso presagire qualcosa di quello che avverrà. Ed in 
        mezzo alla nostra protesta contro il buio della morte di Dio cominciamo 
        a diventare grati per la luce che viene a noi proprio da questo buio.
        
        Joseph RATZINGER, «Sabato santo», in Karl RAHNER - Joseph RATZINGER, 
        Settimana santa, Brescia, Queriniana, 1999 (V edizione), 78-79.